Educare le aziende al valore della circolarità attraverso la formazione e la consulenza tecnico-strategica: la storia di Circularity e della sua founder e AD Camilla Colucci.
Puntare prima di tutto sulle competenze e fare di queste la leva e il motore del cambiamento. Senza commettere l’errore più comune, e più grave: scambiare i fallimenti per delle inevitabili battute d’arresto. Al contrario, rinascere dalle crisi e accoglierle come momenti di evoluzione e arricchimento.
Camilla Colucci, AD e co-founder di Circularity, classe 1994, ha le idee chiare su quello che significhi essere oggi in Italia una giovane imprenditrice donna in un settore tipicamente maschile come quello dei rifiuti.
Con lei abbiamo parlato di questo e di come il progetto di Circularity sia cambiato e si sia evoluto riuscendo ad anticipare i cambiamenti normativi e le esigenze di mercato.
Circularity: com’è nata l’idea?
L’idea di Circularity è nata nel 2018 durante una chiacchierata con mio padre, Pietro Colucci, che è un industriale del settore del recupero dei materiali e delle energie rinnovabili. Parlavamo del modello di business di AirBnB e di come fosse stato capace, all’interno di un mercato saturo, di rivoluzionare il modello di gestione degli affitti.
Ci siamo immaginati il potenziale che una piattaforma simile avrebbe potuto rappresentare per la green economy, nella gestione non degli affitti ma dei materiali.
All’epoca stavo facendo il praticantato di specializzazione in psicologia, così ho cominciato a lavorare part-time a questo progetto parallelo, iniziando a costruire un database di aziende, di impianti di riciclo e di trasportatori che avrebbero potuto far parte di questo network.
Nel progetto, poi, abbiamo coinvolto una manager specializzata in Corporate social responsibility, Alessandra Fornasiero, che ha fortemente creduto nel progetto e che ha deciso di fondare insieme a me Circularity.
Da allora il team è cresciuto: oggi siamo in 27, under 35.
Dalla psicologia alla sostenibilità ambientale: cambio di rotta o evoluzione di un percorso?
Circularity è un progetto che nasce dal mio bisogno di fare qualcosa di utile per la comunità.
Anche i miei studi in psicologia, in fondo, rispondevano alla stessa chiamata: avere un impatto positivo sulla comunità dal punto di vista sociale.
Con Circularity il mio sguardo si è rivolto alla salvaguardia dell’ambiente, e ciò si deve sicuramente anche al fatto che in famiglia abbiamo una forte cultura della sostenibilità ambientale, ho sempre fatto volontariato in questo ambito e sono cresciuta con una consapevolezza e una sensibilità particolari riguardo al tema.
Oggi mi dedico full time a questa missione, con il progetto di Circularity e con il mio lavoro in Innovatec, l’azienda di famiglia quotata che partecipa a Circularity.
Dall’idea al progetto: com’è andata?
Nel disegno iniziale, quella che poi abbiamo chiamato Circularity Platform doveva essere un polo di simbiosi industriale, per mettere in contatto le aziende, gli impianti, i trasportatori e gli utilizzatori finali per valorizzare, recuperare e quindi riciclare quello che ad oggi era ed è un rifiuto smaltito.
Una sorta di Tinder dei rifiuti!
Questa idea di piattaforma si è però rivelata rapidamente un flop, perché l’economia circolare non è di fatto un topic rilevante per le aziende, che non hanno incentivi né obblighi né competenze in house in materia e di conseguenza faticano a comprendere il vantaggio di cambiare i processi produttivi.
Per questo la piattaforma si è trasformata in un portale di servizi B2B con l’obiettivo di coinvolgere le aziende, attraverso la formazione e la consulenza tecnico-strategica, in dei percorsi più strutturati e in progetti dedicati ad obiettivi di decarbonizzazione, valorizzazione delle risorse o strategia ESG.
Attraverso questo nuovo modello siamo cresciuti e ci siamo rafforzati, anche grazie a partnership strategiche come ad esempio quella con Banca Intesa, e acquisendo tra i nostri clienti anche aziende multinazionali.
Il dinamismo e la flessibilità, d’altronde, sono tra le chiavi del nostro successo. Ci siamo evoluti cambiando il nostro modello di business e la nostra offerta di servizi per poter anticipare e rispondere alle esigenze di mercato e alla normativa.
E cos’altro vi contraddistingue?
Quello che ci contraddistingue, e che ci distingue dalle big Four, è il nostro approccio fortemente personalizzato: le nostre consulenze sono quasi sempre customizzate e vengono progettate sulla base delle esigenze specifiche del singolo cliente.
Dalla definizione dei piani strategici di sostenibilità, alla rendicontazione ESG, dalla valutazione della catena di fornitura alla misurazione della carbon footprint: la nostra scelta è quella di porci come degli ESG manager dell’azienda e di fornire un supporto a 360 gradi.
Cosa significa oggi essere una donna imprenditrice, in Italia, in questo settore?
Si dice che la sostenibilità sia donna, ma io non ne sono convinta.
Non per questioni di genetica ma piuttosto per il ruolo sociale che la donna tradizionalmente ricopre: è innegabile quanto l’attenzione verso queste tematiche implichi aspetti di cura, tutela e sensibilità, che per definizione sono sempre state considerate caratteristiche femminili.
Ma io credo fermamente che la mia generazione non guardi più queste caratteristiche considerandole debolezze, e che lavorare nel settore della sostenibilità sia una scelta che dipende dai valori e dai doveri che portiamo avanti come esseri umani.
Detto ciò, essere una donna e fare impresa in un settore prettamente maschile come quello dei rifiuti non è stato sicuramente semplice. Ma anche la giovane età del nostro team ha rappresentato un ostacolo, soprattutto all’inizio.
I nostri referenti sono quasi sempre decisori - amministratori delegati, uffici acquisti, responsabili di stabilimento - e si tratta di uomini con in media il doppio dei nostri anni, di fronte ai quali non è stato facile dimostrare la nostra professionalità.
Essere giovane ed essere donna, nel mio caso, ha reso la sfida doppia ma la risposta è ed è sempre stata la stessa: provare il valore del mio progetto attraverso le competenze e la conoscenza del settore.
Quanto è difficile essere una startup innovativa in Italia?
Credo che uno dei problemi maggiori, in Italia, riguardi il significato stesso che diamo al concetto di fallimento da un punto di vista culturale.
Fallire non è considerato un momento utile o per lo meno naturale nel percorso di evoluzione di un progetto, ma al contrario è riconosciuto come un momento di rottura che segnerà per sempre, in negativo, il nostro curriculum vitae.
Non è casuale se, con una startup fallita alle spalle, in Italia è praticamente impossibile ottenere un finanziamento.
Dobbiamo liberarci da questa lettura limitante e limitata del fallimento e accoglierlo come un momento di rinascita e di cambiamento. Fondamentale per crescere e arrivare poi alla realizzazione.