Accogliere, normalizzare e trattare i vissuti emotivi delle madri è il primo passo per sostenere le donne nel proprio percorso di crescita e di reinserimento nel mercato del lavoro. La parola alla psicologa Benedetta Pezzini.
Maternità e lavoro: un binomio difficile
Quello tra maternità e lavoro, in Italia, continua a essere un binomio difficile da realizzare.
I dati della recente indagine Inapp “Rapporto plus 2022. Comprendere la complessità del lavoro” parlano chiaro: quasi una donna su cinque tra i 18 e i 49 anni non lavora più dopo la nascita di un figlio e la motivazione prevalente (oltre il 50% dei casi) è proprio la difficoltà di conciliare il lavoro con la cura della famiglia.
La condizione di genitorialità, infatti, ha un impatto profondamente differente sullo stile di vita di uomini e donne e la maternità continua a rappresentare una causa strutturale di caduta della partecipazione femminile al mercato del lavoro, innegabilmente legata alla gestione dei carichi familiari e al ruolo di caregiver assunto, nella stragrande maggioranza dei casi, proprio dalla donna.
Non è un caso, d’altronde, che in presenza di figli sia proprio la presenza maschile nel mercato del lavoro ad aumentare, con un divario fra madri e padri che raggiunge i 30 punti percentuali. E il divario occupazionale aumenta con il numero dei figli. Secondo i dati Istat nel 2020 per le donne con 1 figlio il tasso di occupazione era del 56,3% mentre con 3 o più figli scendeva al 44,2%.
Non si tratta, tuttavia, solo di una questione di carichi familiari.
Motherhood Penalty
La fuoriuscita temporanea dal lavoro durante la maternità, incide infatti in maniera piuttosto evidente sulle possibilità di carriera delle donne e corrisponde a una penalizzazione in materia di reddito.
Il fenomeno è noto come Motherhood Penalty, penalizzazione associata alla maternità, e anche in questo caso i dati sono utili a comprenderne la portata: secondo l’Inps, nei 24 mesi dopo il congedo di maternità la donna guadagna in media tra il 10 e il 35% in meno di quanto avrebbe guadagnato se non avesse avuto il figlio, e il trend non si inverte nemmeno sul lungo periodo. Secondo uno studio a cura degli economisti Casarico e Lattanzio, rispettivamente Bocconi e Banca d’Italia, a quindici anni dalla maternità le donne con figli guadagnano in media 5.700 euro in meno rispetto alle donne senza figli.
E ciò è dovuto anche alla mancanza, da parte delle aziende, di programmi di supporto mirati al reinserimento delle madri nei percorsi di carriera.
Fuoriuscita dal mondo del lavoro
In un contesto culturale in cui alla madre è tradizionalmente affidata la cura della famiglia, è facile capire come una penalizzazione in materia di reddito non possa che diventare ulteriore spinta verso la fuoriuscita delle donne dal mondo del lavoro, che si trovano a scegliere fra essere madri o essere lavoratrici anche per questioni prettamente economiche.
In uno dei paesi in Europa con minore offerta di servizi pubblici per la prima infanzia, d’altronde, è facile comprendere come sul bilancio di una famiglia possa essere meno impattante la rinuncia al lavoro da parte della madre, il cui stipendio è destinato ad essere penalizzato per le ragioni sopra descritte, piuttosto che ricorrere a costosi asili privati, a tate o baby-sitter.
L’impatto di tutto ciò è vasto ed ha pesanti effetti anche dal punto di vista demografico: oggi l’Italia è d’altronde l’ultimo paese europeo per tasso di fecondità e nel 2022 è stato toccato il minimo storico di 400.000 nascite.
La maternità, dunque, allontana le donne dal mondo del lavoro e su questo fenomeno pesano prima di tutto la condizione familiare, la mancanza di adeguati servizi di welfare e un mondo del lavoro che è esso stesso ostile al reinserimento delle madri nel proprio percorso di carriera.
Come invertire la rotta? Come agire per rendere finalmente conciliabili il lavoro e l’essere madre? Come rendere la maternità non più un fattore discriminante, un ostacolo, un impedimento alla realizzazione personale e professionale? Come supportare le donne in questo percorso?
L'origine del senso di colpa
Di tutto questo, e non solo, abbiamo parlato con Benedetta Pezzini, Psicologa clinica e Psicoterapeuta in formazione specializzata in età evolutiva e genitorialità e founder di Mammachesonno, un servizio di consulenza dedicato ai genitori per la gestione del sonno dei figli e di tutti i fattori ad esso connessi.
Mentor di StrongHer, con un workshop dedicato proprio al tema della conciliazione di maternità e professione, la Dott.ssa Pezzini ha condiviso con noi il suo punto di vista di specialista, aiutandoci a capire l’origine del senso di colpa che spesso accompagna il rientro della madri al lavoro (o il tentato tale), mettendo il luce quella che è ad oggi una delle maggiori esigenze di una donna che è appena diventata madre: l’ascolto e il sostegno psicologico.
Quali sono le difficoltà più comuni delle madri lavoratrici, secondo la tua esperienza?
La difficoltà più comune, delle mamme in generale ma di quelle lavoratrici in particolare, riguarda il tema sonno.
Quello del sonno, in realtà, è un problema che apparentemente riguarda solo il bambino ma che spesso ha ragioni più profonde, relative alla coppia genitoriale, e il tema del lavoro è da questo punto di vista fondamentale, perché porta il più delle volte con sé uno squilibrio. Uno squilibrio che genera tensione tra i genitori e che si ripercuote sul figlio proprio attraverso problematiche relative al sonno, che però sono solo la punta dell’iceberg.
Ti faccio un esempio, che rende bene l’idea dello squilibrio di cui sto parlando: su 10 consulenze che faccio, 9 volte su 10 dall’altra parte trovo una madre; solo una volta su 10 a presentarsi è un padre.
Eppure il tema del sonno dovrebbe riguardare entrambi in egual misura, no?
Non è così. Nella maggior parte dei casi è solo la mamma a prendersi cura dei bambini e di per sé questo non è un problema, ossia se la coppia genitoriale ha scelto di strutturarsi così in maniera consapevole, attraverso una scelta condivisa, è una scelta funzionale su cui non intervengo.
Purtroppo, però, non è così per tutte le coppie: alla base c’è spesso uno squilibrio sofferto. Ci sono madri che portano da sole sulle proprie spalle il peso della famiglia e che bramano la libertà dei padri che al mattino si preparano ed escono per andare al lavoro.
Uno squilibrio incompreso, inascoltato, ma che si fa sentire forte nel rapporto fra i genitori e, come ti dicevo, si ripercuote anche sui figli. Pensa che la stessa decisione di rivolgersi a uno specialista è spesso sofferta: i padri talvolta non la comprendono e temono che le problematiche relative al sonno derivino piuttosto dall’incapacità della madre di "fare il proprio dovere" di far dormire i figli.
Si parla spesso anche di senso di colpa?
Il vissuto della maggior parte delle mamme lavoratrici è sempre un mix di entusiasmo, voglia di riprendere in mano la propria vita e senso di colpa nei confronti del figlio.
Il senso di colpa più diffuso è quello di non avere abbastanza tempo da dedicare al bambino e che qualcuno possa dedicarvisi nel modo sbagliato o diverso da loro.
Ti porto l’esempio di una paziente incontrata giusto oggi, già rientrata a lavoro, nel giro di poche settimane dovrà incrementare le ore di lavoro e, pur lasciando la bambina con sua mamma, teme che possa essere stimolata poco e di non riuscire a “recuperare” gli stimoli persi nelle poche ore in cui ci sarà lei!
Talvolta a questo si aggiunge un senso di colpa nei confronti del proprio bambino, suscitato dall’avere altri interessi oltre alla maternità. Senza contare il senso di colpa che si innesca nei confronti del proprio lavoro, a cui ci sembra di non potersi dedicare come e quanto prima.
Il carico emotivo e mentale è tanto, e difficile da sostenere: è fatto di stanchezza, frustrazione, rabbia. Talvolta anche un po’ di invidia per il marito la cui vita è cambiata in fondo poco rispetto a prima.
Per questo, da un punto di vista terapeutico, è fondamentale regolare gli aspetti emotivi connessi all’essere madre, all’essere madre lavoratrice o all’essere madre che vorrebbe lavorare; gli aspetti legali alla solitudine dell’essere mamma. È fondamentale accogliere, ascoltare questa emotività, comprenderla. Questi vissuti devono essere accolti e normalizzati, e poi ovviamente trattati e spostati all’interno di una dinamica di coppia.
E il ruolo dei padri?
Durante i primi mesi di vita l’attaccamento madre bambino è ovviamente maggiore, è una dinamica biologica, naturale. Pensa solo all’allattamento.
Ma questo non significa che il padre non possa partecipare a questa relazione, prima di tutto da un punto di vista emotivo: è un apporto fondamentale. È necessario che i padri forniscano il loro sostegno anche in questa fase, e che creino un legame solido per il bambino ma anche per la coppia.
E attenzione, non è un rapporto a senso unico. Perché un padre possa stabilire un legame è importante che la madre gli dia fiducia, che gli permetta di mettersi in gioco.
Ovviamente le cose cambiano quando il bambino cresce, e anche i ruoli genitoriali di conseguenza si adattano e si evolvono alla luce di una maggiore complementarità e di una comunicazione che non deve mancare mai.
Cosa serve, in definitiva, a una madre per non essere lasciata sola?
C’è un detto che dice “Per crescere un figlio ci vuole un intero villaggio”. E non c’è niente di più vero.
Servono ovviamente l’aiuto, la collaborazione e la comunicazione con il partner.
Serve il confronto con le altre mamme. Per condividere e normalizzare il proprio percorso e le proprie difficoltà.
Serve il sostegno dei nonni, che è fondamentale non solo dal punto di vista pratico ma anche psicologico, e che oggi spesso manca perché sono troppo anziani - facciamo figli sempre più tardi - oppure perché, al contrario, sono giovani e ancora lavorano.
E poi ovviamente adeguati servizi che ti supportino dal punto di vista pratico, come ad esempio i nidi, e sappiamo come in Italia questo sia un problema.
Ma il supporto è necessario anche dal punto di vista psicologico e sanitario e quello che davvero manca, nel nostro Paese, sono proprio delle reti di supporto alla genitorialità.
E mancano perché a mancare è la stessa consapevolezza di quanto questo tipo di sostegno sia fondamentale in questa fase della vita per il benessere dei genitori e dei bambini.
Quello che invece esiste è una narrazione falsata del ruolo dei genitori, e soprattutto dell’essere madre, una narrazione di estremo sacrificio e privazione, per cui se non soffri e non rinunci abbastanza, allora non sei un buon genitore.
Ecco, non è così: si può essere madri lavoratrici e si può essere serene ed equilibrate. Ma perché questo sia possibile si dovrebbe poter godere dei supporti necessari per poter essere genitore, dal punto di vista pratico e mentale.